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In vista del referendum del 4 dicembre 2016. Documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia dal professor Gustavo Zagrebelsky (x il NO)
Ampi
stralci di un documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia dal
professor Gustavo Zagrebelsky in vista del referendum.
Nella campagna per il referendum
costituzionale
i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori
del NO, risponderemo con argomenti. Loro
diranno, ma noi diciamo:
1.
Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o
anche settanta, secondo l’estro)
- Noi diciamo che da
quando è stata approvata la Costituzione
– democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola
accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre
una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente
antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella
politica
italiana. A costoro devono
affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di
modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader:
commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È
vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia
finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza
che si è espressa nel referendum
di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava
vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”,
diciamo: parlate per voi.
2.
Diranno che “ce lo chiede l’Europa”
- Diteci che cosa
rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo
di garantire equilibri
economico-finanziari
del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a
proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno
d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat che essa emana, come quello indirizzato
il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio
programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato
all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità.
Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete
della famosa lettera Draghi-Trichet,
parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari
internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione
democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con
ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese.
A chi dice: ce
lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla
quale volete
dare risposte?
3.
Diranno che le riforme servono alla “governabilità”
- “Governabile” è chi
si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici
capaci di suscitare consenso,
partecipazione, sostegno.
In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia
della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla
manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi
rispondiamo: partecipazione e governo democratico.
4.
Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della
democrazia
- Ma noi diciamo: quale
Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con
una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto,
per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio
di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quella elezione come una
specie di golpe
elettorale, per avere “rotto il
rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte
aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute
immediatamente.
Ma è chiaro a tutti
coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe
dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale
conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il
rapporto di rappresentanza.
È vero che,
scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non
poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione
di legittimità che getta un’ombra su tutta questa
vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio
di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari
per portarla a compimento.
5.
Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di
“autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse
- Noi parliamo,
piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono
state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e
compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della
Repubblica; sono state recepite
nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti
all’approvazione del Parlamento
con ogni genere di pressione
(minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati
come dissidenti), di forzature(strozzamento
delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo
parlamentare
(passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino
ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia
appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia
posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma,
sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non
eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il
primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi
diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.
6.
S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”
- Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione
ambigua. Sono i governi dei caudillos
e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la
propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio
potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere
“costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma
solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare
d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i
numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare
quel che si vuole.
7.
Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla
d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del
generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
- Noi ci limitiamo a
porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana
che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di
poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva
alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a
Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel
passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima
ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi
concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato.
8.
Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non
democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti,
alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.
- Noi diciamo che la
riforma forse sottoposta al giudizio
degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che
il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha
voluta lo trasformerà in un plebiscito.
Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un
voto su un governo temporaneamente in carica.
Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza
battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà
valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che
dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai
quasi completamente allineata.
9.
Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si tratta d’una
riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali
e a renderli più spediti ed efficienti
- Noi diciamo: altro
che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente
incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si
elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte
per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò
umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata
sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata.
Le “riforme”
costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non
per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.
10.
Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano
criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao,
ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato
- Noi diciamo: andate
a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava,
allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza
democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del
Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel
linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è
tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo
emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome
istanze democratiche.
11.
Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi
del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”
- Noi diciamo che a
noi non interessano “riforme”
che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che
non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti
autoritari. Questi istinti non
si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte
di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si
tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che
forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo
manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere
tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o
abbassare gli ostacoli (pluralismo
istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero
dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre
eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa
l’opposto del far opera costituente.
12.
Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una
condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta
la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla
- Noi opponiamo una
classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più
importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta,
che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i
nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza
mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente
se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di
governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è
destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo:
non accollate a una Costituzione
le colpe che sono vostre.
13.
Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non
siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi
della politica”?
- Noi diciamo:
qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso
un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in
effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei
costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del
Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci.
Non è
stato così. Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga
tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano.
Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente
scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese
per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler
combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza.
14.
Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi
esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando
per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti
costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per
le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un
lavoro tecnicamente ben fatto?
- Le questioni
costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione
delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta
realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è
l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un
organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della
Repubblica che, dall’alto, potrà
manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.
Quanto poi alla bontà
del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze
legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si
arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo
a numerosi conflitti):
“La funzione legislativa è esercitata collettivamente
dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e
soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali
concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme
di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano
l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni
fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle
forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le
forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e
all’attuazione della normativa e
delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di
ineleggibilità e di incompatibilità
con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di
cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116
terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma,
122, primo comma, e 132, secondo comma”.
Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi
diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o,
meglio, come un Decreto mille-proroghe qualunque: sono infatti formulati così.
Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni
dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella
maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si
capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari
oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti
dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali
“In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati
consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma,
al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.
Un pasticcio
dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione:
parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come
queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole
vostre e con parole
chiare che cosa avete
voluto.
Questi tecnici non
hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità
l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro
che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno,
ma lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a
favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a
favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare.
Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che
unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma
divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?
Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11
autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la
giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso
poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le
parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se
manca la sovranità, cioè la libertà
di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non
più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si
serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più.
La prassi è
lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica
e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio
compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la
riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo
vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro
ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo
nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per
questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia
il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle
condizioni di non nuocere.
Seguiamo questa
concatenazione: la Costituzione
è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La
Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma
costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno
per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato:
opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà.
Post
scriptum: C’è poi ancora un
altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella
lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato
ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua insensatezza.
Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse meriterebbe, ma lo
collochiamo alla fine, a parte.
15.
Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e uno
Zagrebelsky
- Noi diciamo: non
fate torto alla vostra intelligenza.
Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo,
sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che
devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia? In verità, chi pensa di vedere in
questa concordanza un motivo di divertimento, e non una seria ragione per
dubitare circa il valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che
confessare candidamente un suo retro-pensiero.
Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna differenza
essenziale; che, quindi, se sei
in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in accordo costituzionale
con lui, perché tutto è politica e nulla
è costituzione.
A noi, questo, non
sembra un modo di pensare rassicurante.
(da
Il Fatto Quotidiano del 6 marzo 2016)