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giovedì 13 agosto 2020

Angelo Bergamonti di Gussola: un campione di motociclismo sfortunato ma passato alla gloria!

 Il 4 aprile 1971, dopo una caduta sul circuito di Riccione battuto dalla pioggia moriva Angelo Bergamonti, 32enne pilota ufficiale della MV Agusta, compagno di squadra di Giacomo Agostini.


In quel maledetto tempestoso pomeriggio, sui viali del lungomare della riviera romagnola, il forte pilota di Gussola (Cremona) dava addio ai suoi sogni di gloria, lasciando un vuoto incolmabile nel motociclismo de “I giorni del coraggio”, un motociclismo tanto affascinante quanto crudele e impietoso.

Angelo Bergamonti arrivò tardi a coronare il sogno di correre per la Casa più titolata e competitiva di allora, la MV Agusta ingaggiato dalla Casa di Cascina Costa all’età di 31 anni a fine 1970 per “stimolare” e fare da spalla al ben più quotato e famoso Giacomo Agostini. Ma Bergamonti, persona leale con l’indole del vincente, non si adattò al ruolo di seconda guida e dopo i due podi di Monza dietro Ago all’esordio con le 350 e 500 varesine e la successiva doppietta vincente di fine stagione al GP di Spagna del Montjuich (assente Agostini per una gara inglese non iridata a Caldwell Park) pensò di poter guadagnare i galloni di capitano già dal 1971.

Nella prima gara stagionale del 19 marzo ’71 all’autodromo di Modena i due piloti della MV Agusta si dividono la torta: Bergamonti primo nella 350 davanti ad Agostini (staccato di 8”.6) e con Mino primo nella 500 con 2”.6. Nella successiva corsa, a Rimini, la 350 finisce in volata con Ago primo ma “bruciato” nella 500 da Bergamonti, che batte così per la prima volta il pluri iridato nella classe regina.

In un clima surriscaldato e teso per la crescente rivalità dei due effervescenti “galletti” nello stesso pollaio si giunge così il 28 marzo 1971 alla gara internazionale sul circuito di Riccione. Ma l’imperversare del maltempo costringe gli organizzatori del “Perla verde” a posticipare la corsa di una settimana rendendo tutti contenti anche perché dal 29 marzo il sole torna a risplendere in riva all’Adriatico.

Ma il destino non fa sconti e non cancella l’appuntamento con il giorno fatidico. Il 4 aprile si presenta con la stessa cornice invernale della settimana precedente e il cartello pubblicitario “Un pieno di sole a Riccione” scompare nel nubifragio che imperversa proprio alla partenza della 350. Scrivevamo tempo fa su Motoblog.

“La tre cilindri di Bergamonti recalcitra alla partenza, costringendo il pilota nell’imbuto del gruppone, mentre Agostini s’invola in testa. Visibilità ridotta al lumicino, pozzanghere e spruzzi ovunque, moto come mezzi anfibi. La corsa pare già chiusa. Ma Bergamonti infiamma gli oltre 40 mila presenti con una straordinaria rimonta che lo porta fin quasi all’aggancio del battistrada Agostini. Dopo due giri record, al termine del settimo giro, sul rettifilo che porta alla rotonda del traguardo, Angelo tenta l’impossibile allungando ancora la staccata: la moto s’intraversa violenta innescando la fatale parabola.

Non ripetiamo qui quella drammatica scena vista dal vero da chi scrive queste note, e più volte descritta. Moto e pilota piroettano sul lago d’asfalto, alla fine la tre cilindri si schianta nelle balle di paglia della “rotonda” e il pilota termina la corsa con un terribile scarto conclusivo sul cordolo di destra, a ridosso del pubblico attonito. La gara prosegue con Ago che vince la sua corsa più triste perdendo un rivale e un amico. Trasportato prima all’ospedale di Riccione poi, per le condizioni disperate al Bellaria di Bologna, Angelo cessava di vivere alle 23,45.

Il motociclismo piomba subito nella spirale di polemiche senza senso, tanto da portare il Governo ad abolire con un decreto legge le corse sui tracciati cittadini chiudendo così un’epoca ultradecennale di gloria e tragedie”.

Allora Agostini era all’apice della sua carriera mentre Bergamonti, dopo anni di faticosa corvèe (inizi nel 1957 con cadute e fratture, poi sempre battagliero con le Aermacchi 125, 250, 350, 410, le Paton 500, la Morini 250 bialbero) pareva finalmente pronto – dopo tre titoli italiani in 125, 250, 500 e 4 GP vinti - per l’ingresso fra i grandi e la scalata al titolo iridato. Una carriera di tutto rispetto, recisa dal colpo inappellabile della dea bendata. Angiulein pagava così con la vita il conto più beffardo e tremendo alla sua passione per le corse.


Pilota coriaceo, da mischia, mai domo, gran staccatore, eclettico, tecnico, capace di mettere a punto ogni motore e di adattarsi alla guida con moto di ogni cilindrata, 2 o 4 tempi, mono o plurifrazionate. Chi scrive lo ricorda come un ragazzo sereno, sorridente, umile ma non modesto perché sapeva quanto valeva in pista. Pilota preparato, sempre indaffarato e scrupoloso in ogni sua azione, mai arrogante mai sconsolato, sempre pronto a dare una mano a chi gli chiedeva una chiave, una candela, un consiglio.


Ci ripetiamo: Angelo Bergamonti rispettava tutti, non solo Agostini, di cui nutriva amicizia e forte considerazione. Si scrisse che morì per inseguire Agostini. Ma Angelo non voleva emulare nessuno. Voleva appagare il suo desiderio di competere, mettere le ali al suo sogno di passare veloce sotto la bandiera a scacchi. Prima di tutti gli altri. Anche davanti a se stesso. Lassù è certo in buona compagnia. E il titolo iridato glielo hanno consegnato, pur se in ritardo.

Di Massimo Falcioni sabato 4 aprile 2015





martedì 12 maggio 2020

Rory Gallagher e la sua mitica 61, il vero Gallagher del rock!


“Mr. Hendrix, cosa si prova a essere il più bravo chitarrista rock del mondo?” 
“E che ne so? Andate a chiederlo a Rory Gallagher!”

Questa conversazione – che potrebbe sembrare surreale – si svolse all’indomani del grande festival musicale di Woodstock, quando un giornalista rivolse la fantasiosa domanda a Jimi Hendrix, allora il più osannato dei chitarristi della storia del rock.
La risposta di Jimi, fedele al suo personaggio tanto anfetaminico sulle scene, quanto gentile e delicato fuori, dà la misura di come l’irlandese Rory Gallagher fosse apprezzato dai suoi colleghi musicisti, sebbene allora avesse a malapena ventuno anni.
Rory era nato per l’appunto in Irlanda, a Ballyshannon, il 2 marzo del 1948; da quando – a nove anni – gli avevano messo in mano una chitarra, il ragazzino non aveva smesso di stupire. Influenzato da dischi di blues di Muddy Waters e Leadbelly, sentiti chissà dove, fin da ragazzo aveva elaborato uno stile basato su una peculiare mistura di blues, quello elettrico di Chicago ma anche quello acustico pre-guerra, folk e jazz.
Verso la seconda metà degli anni ’60 la Mecca per chi vuole suonare la chitarra e fare del rock la propria occupazione è ovviamente Londra, ed è lì che il giovanissimo Rory si trasferisce appena può.
Rory, che è nato come William – o Liam, come anni dopo uno dei due pestiferi Gallagher degli Oasis – si appassiona subito al British Blues, allora imperante, e forma un terzetto sulla scia di Cream e Jimi Hendrix Experience. Con Richard McCraken e John Wilson nascono i Taste. Il trio si fa subito una solida fama, grazie soprattutto alla chitarra indiavolata di Rory, che sfoggia anche una vocalità genuina e dall’accento pesantemente british, a rendere ancora più particolare il suo blues accelerato. La band sforna tre ottimi album, ai quali forse manca solo – come mancherà al Gallagher solista – qualche brano killer che permetta di sfondare del tutto; manca il caratteristico trenta per fare trentuno. A un certo punto, però, il bravo chitarrista si accorge che manca anche qualcos’altro: i quattrini. I due compagni di band, infatti, in combutta col dispotico manager Eddie Kennedy, stanno truffando l’ingenuo Rory, che manda all’aria tutto quanto.
Resta il tempo per una leggendaria esibizione al festival di Wight, poi Rory scioglie i Taste e inizia una carriera solista che sarà proficua ma sempre mantenendo il profilo piuttosto basso.
Ed è un po’ la cifra della carriera di Gallagher, il basso profilo. Il musicista era infatti refrattario ai compromessi, fin troppo forse. Non gradiva le lusinghe dello show business, come non sopportava – chissà perché – i 45 giri. La sua immagine era caratterizzata da camicioni a scacchi, gli stessi che faranno la fortuna del grunge vent’anni dopo, e, nonostante la stima che gli professavano colleghi come Eric Clapton, Jimmy Page e il citato Hendrix, l’unico interesse di Rory rimase sempre il palco, senza troppa attenzione al lato commerciale.
Sempre imbracciando la sua Fender Stratocaster Sunburnst del 1961 – che una volta gli fu rubata, gettandolo nella depressione finché non la ritrovò – incise undici album in studio e, soprattutto, tre incendiari live. Il suo stile, sospeso tra blues, jazz e hard rock, ricordava i coevi Johnny Winter e Alvin Lee – anche vocalmente – e la sua tecnica era sopraffina, specie nella rilettura di vecchi standard blues; la composizione era forse il suo punto debole, anche se pezzi come Million Miles Away sono rimasti giustamente nella storia.
Un’altra occasione che fa ben comprendere l’approccio di Rory allo showbiz avvenne nel 1975; Mick Taylor, che aveva sostituito Brian Jones nei Rolling Stones nel 1969, decise di abbandonare la band. Troppo poco avvezzo agli eccessi degli Stones, si disse allora, ma anche la voglia di tentare una carta solista che gli darà ben poche soddisfazioni. La caccia al posto vacante è spietata, Rory suona un po’ col gruppo, registra dei provini; piace molto a Mick Jagger, ma il periodo è assai confuso. Keith Richards non sta bene, non si sa se il gruppo andrà avanti o finirà lì, in più Ron Wood – che alla fine sarà scelto – non ha la tecnica di Rory ma è più avvezzo alla vita on the road e anfetaminica della band; Rory, inoltre, sta per partire per un lungo tour in Giappone e non se la sente di rischiare. Alla fine non se ne farà nulla.
Rory Gallagher continua così a fare quello che gli riesce meglio, incendiare i palchi di tutto il mondo con la sua fedele Stratocaster. Incide ancora dei buoni lavori, ma gli anni ’80 sono alle porte col loro carico di musica patinata che ben poco spazio lascia al sano vecchio rock’n’roll. Rory, che paradossalmente è sempre stato contrario agli eccessi della vita da rockstar, in particolare alle droghe, tenendo sempre il vessillo del proletariato irlandese, cade nel tranello dell’alcool. Beve talmente tanto che presto inizia a soffrire di fegato. Continua a suonare fino a quando non si rende necessario l’estremo rimedio, un pericoloso trapianto. Siamo nel 1994 e le cose non vanno come sperato: il 14 giugno del 1995, per le complicazioni dovute all’operazione, Rory Gallagher muore a soli 47 anni.
Tutte le televisioni irlandesi e perfino la BBC inglese interrompono le trasmissioni per darne l’annuncio. In Gran Bretagna – a differenza che da noi – Rory è un personaggio leggendario, forse il solo capace di unire inglesi e irlandesi. I suoi funerali, a cui partecipa la folla delle grandi occasioni, vengono trasmessi in diretta nazionale alla televisione.
Rory Gallagher compirebbe oggi 72 anni e non ci vuole poi troppa fantasia a immaginarlo ancora sul palco, invecchiato e con la fida Stratocaster, a dispensare il suo blues d’altri tempi, con la camicia a scacchi, i lunghi capelli bianchi, la bottiglia e tutto quanto.







sabato 9 maggio 2020

Intervista all'ing. Carlo Negri. 8 maggio 2020 - Appello ai cittadini. Riprendiamoci la Patria e la libertà

CI VOGLIONO METTERE AGLI ARRESTI DOMICILIARI - Ing. Carlo Negri su Byoblu


CENSURATO !
Perché non accada mai più
Intervista all'ing. Carlo Negri. 8 maggio 2020 - Appello ai cittadini. Riprendiamoci la Patria e la libertà

"fonte: https://www.youtube.com/watch?v=xTOf5PGR6VE


INTERVISTA ING CARLO NEGRI . IL FUTURO DELL`ITALIA . Morris San




(Commenti):
"Difendiamo Dario Musso, arrestato e sottoposto a TSO per aver manifestato il suo dissenso verso l'inganno più grande della storia dell'uomo" "con questo caso Dario Musso, abbiamo raggiunto la follia del regime dittatoriale in qui viviamo. il video, che amaramente ho visto, e' un monito a non ribellarsi.. altrimenti farete la stessa fine: nel campo di concentramento TSO e le foche applaudono. Pazzesco"

"non potete paragonare l'ingegnere con grillo, quello era da tempo un satanista che lanciava messaggi dei satanisti stessi, avvertono di quello che vogliono fare e poi vi uccidono, con l'ingegnere non esistono queste cose è un patriota incorruttibile."
Intervento estratto da ByoBlu intervista all'ing. Carlo Negri (da privato)


sabato 14 marzo 2020

venerdì 28 febbraio 2020

"38 LUGLIO" (Squallor) feat. Giul Gil Brezza from Pigri - Subtitles YTube

La voce di Giuliano Gil Brezza facente parte della Band, chiamata: complesso "LAMPO E I SUOI PIGRI" (anni '70)


"38 LUGLIO" (Squallor) feat. Giul Gil Brezza from Pigri - Subtitles YTube


Il mitico grande successo degli, allora emergenti, "Squallor" (1971/72/73), con la voce di Giuliano Gil Brezza della band "Lampo e i suoi Pigri" di Riccione (Flash and his Lazy Boys). Nelle sale da ballo, quante coppie, quanti innamorati abbiamo fatto ballare con questo "lento"! E contemporaneamente fatto divertire.. anche chi non ballava! Era molto richiesto e molto gradito.

Video provvisto di sottotitoli-YouTube.

"38 luglio" è stato scritto da Daniele Pace e musicato da Giancarlo Bigazzi, Totò Savio e Antonio Virgilio Savona del Quartetto Cetra, e recitato da Alfredo Cerruti.

Il brano narra le vicende di "un elettrotecnico che seppe inventare la pila, non pochi ci riuscirono, ma fu lui che la inventò". Il testo fa enorme affidamento al nonsenso, a partire dalla data che dà il nome alla canzone (per l'appunto, il 38 luglio), ma al contrario di quella che poi diventerà una delle caratteristiche principali degli Squallor, non vengono mai pronunciate parolacce o termini particolarmente volgari. Questo fatto rende 38 luglio una delle poche canzoni degli Squallor ad aver ottenuto dei passaggi radiofonici anche su emittenti nazionali. (da W.)"

sabato 25 gennaio 2020

I NUOVI DISCHI IN VINILE SONO UNA FREGATURA


I NUOVI DISCHI IN VINILE SONO UNA FREGATURA
 
Che siate giovani in cerca di nuove esperienze tecnologiche o ultracinquantenni che sperano di rallentare la senescenza recuperando il giradischi di gioventù dalla cantina, sconsiglio di comprare dischi di vinile di nuova produzione, quelli che ormai si trovano persino nei centri commerciali e che costano sedici, venti, addirittura cinquanta euro, che si tratti di ristampe di vecchi titoli o di nuove produzioni viniliche parallele alla pubblicazione su Cd e/o download.
Vi spiego perché.
Per quel che riguarda le ristampe di vecchi titoli, quelli pubblicati in vinile fino alla fine degli anni ottanta, il primo motivo per cui non ha senso comprare un‘edizione attuale è il più ovvio: non ha senso pagare 19,90 euro la ristampa vinilica di Steppenwolf di Peter Maffay (1979) quando l‘originale uscito quarant‘anni fa si trova ai mercatini a un euro, e online persino a 10 centesimi, spesso in condizioni ottime.


Perché spendere 24 euro per un vinile, quando ai mercatini si può comprare a un euro? (foto dell’autore – Mercatino delle pulci di Kennedy Platz, Berlino)
Poi quasi sempre la stampa originale è migliore di quella attuale. I macchinari in uso oggi sono quelli scampati alla distruzione alla fine degli anni novanta, hanno alle spalle la stampa di decine o centinaia di milioni di copie, e pur con la migliore manutenzione non sempre riescono a garantire la potenza di pressaggio necessaria. In generale sono macchine che fanno quello che possono, con pezzi di ricambio perlopiù cannibalizzati da presse fuori uso. A questo si aggiunge che pur di giustificare i prezzi audiofili (anche 50 euro per un disco che alla fabbrica costa un euro di media) alcune etichette stampano dischi molto spessi, da 180 e persino 200 grammi (contro i 140-120 grammi dei vecchi dischi), che in teoria dovrebbero essere maggiormente resistenti alle ondulazioni e per qualche motivo esoterico dovrebbero suonare meglio di quelli sottili degli anni settanta. Ma, a parte il fatto che anche il più sottile dei dischi si piega solo se lo lasci al sole, queste edizioni per eletti suonano spesso peggio di quelle normali: già le presse faticano a stampare un disco di spessore normale, figuriamoci uno così impegnativo.


Un altro indotto creato dalla moda del vinile: i preamplificatori per giradischi costano da 20 a 5.000 euro, ma dentro ci sono sempre più o meno gli stessi componenti (nella foto i preamplifcatori in uso da Seventies Berlin – The Vinyl Radio)
Un altro motivo per cui è quanto meno rischioso comprare una ristampa di un vecchio titolo è il cutting: l’incisione della cosiddetta lacca, il disco originale da cui si otterrà la matrice per la duplicazione, un’operazione che nel periodo della produzione industriale del vinile era compiuta da professionisti esperti. Non solo il nastro originale va valutato per verificare che l’ingegnere di mastering abbia ottimizzato la registrazione per il vinile (un errore, e la puntina di incisione da 10.000 euro si frantuma),  ma il tecnico deve anche costantemente seguire con un microscopio (la cui immagine è perlopiù proiettata su un monitor) l‘andamento dell‘incisione, avvicinando e allontanando manualmente i solchi a spirale mentre scorre la musica, a seconda della situazione sonora: un passaggio sonoro complesso e forte richiede solchi ben distanziati, un pianissimo permette di risparmiare spazio. È un mestiere non facile, bisogna conoscere bene le tracce che si sta incidendo (si deve sapere che fra dieci secondi arriva un colpo di batteria e preparare i solchi) e si deve sapere come ottimizzare i livelli sonori rispetto alla durata e allo stile musicale del disco. È tecnica, arte ed esperienza in pari misura, ed è un compito di responsabilità anche dal punto di vista economico: se si commette un errore in incisione bisogna ricominciare da capo, mezz’ora di lavoro buttata via e una costosissima puntina di incisione usurata inutilmente. Su YouTube troverete decine di video dimostrativi del funzionamento di un tornio di cutting, ma siccome sono quasi tutti pubblicitari vi propongo questo muto di trenta secondi: la luce a sinistra è quella della telecamera che riprende i solchi man mano che sono creati, a destra si vede la testina di taglio. Nel corso dei decenni sono stati sviluppati strumenti atti a facilitare il lavoro del cutter: la Denon aveva a un certo punto messo sul mercato un sistema che permetteva di ascoltare con dieci secondi di anticipo ciò che sarebbe stato inciso, permettendo di regolarsi con comodo e senza conoscere i brani a priori, e di recente ho letto di macchine computerizzate in grado di autoregolare il procedimento in base alla musica, ma ne ho solo letto.


Geoff Emerick
 (l‘ingegnere del suono che ha registrato tutti i dischi dei Beatles, tranne Let It Be, scomparso lo scorso 10 ottobre), nel suo bel libro Here, There and Everywhere racconta che tra una sessione in studio e l’altra si occupava personalmente del cutting delle lacche, il che evidenzia la criticità dell‘operazione e spiega perché le prime edizioni dei Beatles suonino così bene. Alcuni collezionisti pignoli selezionano l’edizione da comprare di un certo disco anche basandosi su chi ne ha realizzato il cutting, identificato da iniziali, simboli semisegreti o firme incisi a mano tra i solchi di fine disco. Non che oggi non esistano bravi ingegneri di cutting, al contrario, ma se non si va sul sicuro, il rischio di comprare un disco inciso male esiste.


Il libro di Geoff Emerick di cui consiglio la lettura. L’autore è purtroppo scomparso a inizio ottobre 2018
C‘è poi un motivo di ordine filosofico. Dicono: ah, il suono analogico del vinile! Già, solo che pressoché nessuna fabbrica attuale ricava le matrici dei vinili dai nastri originali: oggi i vinili sono quasi tutti stampati partendo da una fonte digitale, a volte persino da file mp3 inviati per email. Diranno che non ha importanza, importa che una volta rimodulato dal supporto vinilico, il suono è comunque più bello, più morbido, più caldo. Può darsi, tuttavia penso che se si accetta di introdurre il digitale nella catena di produzione teoricamente analogica, tanto vale piazzare un filtro digitale da poche centinaia di euro nel proprio impianto stereo che riproduca l‘effetto vinilico. Esistono sì piccoli studi in grado di realizzare matrici partendo dal nastro, certo sono più costosi, e resta il fatto che nei grandi stabilimenti di pressaggio di nastri non ne ho ancora visti.


Postazione di digitalizzazione vinili per la successiva trasmissione (foto Seventies Berlin – The Vinyl Radio)
Insomma, un vecchio disco costa quasi sempre molto meno, ha più senso e suona probabilmente meglio di una ristampa moderna se non altro perché è l‘ultimo anello di una catena produttiva industriale organica nella quale ogni operazione era affidata ai migliori professionisti, che lavoravano con macchinari dalla manutenzione perfetta. Aggiungo che per motivi non sempre chiari (forse mescole di vinile di bassa qualità oltre alla solita pressione di stampa inadeguata), a volte i dischi di nuova produzione sono rumorosi, Hanno cioè un soffio pronunciato o un rombo insistente, o rumori come quelli prodotti da una superficie graffiata. Per non parlare di quelli colorati e dei picture disc, che hanno sempre suonato e continuano a suonare male, non comprateli, né vecchi né nuovi.


I dischi pop presentano di norma cinque tracce a facciata; dischi con un numero maggiore di tracce, come alcune compilation, suonano sicuramente così così (foto Seventies Berlin – The Vinyl Radio)
Vediamo ora perché evitare anche le nuove produzioni proposte su vinile. Diversi gruppi e cantanti contemporanei si fanno un punto di onore il pubblicare le loro novità anche su disco, accanto a mp3 e Cd: l’insensatezza della cosa, prescindendo dalla moda, mi pare notevole. Le tecniche digitali audio sono molto più difficili da padroneggiare rispetto ai vecchi mixer analogici e registratori a nastro, ma dopo un paio di decenni di tentennamenti, ora dagli studi migliori escono registrazioni digitali perfette (non quelle di musica classica, che continuano a essere in media scarse). Registrazioni che per essere travasate su vinile vanno limate se non mutilate: i bassi diventano monofonici, la dinamica va adattata alle limitate risorse del supporto, alcune frequenze vanno esaltate, l’ordine dei pezzi va pensato considerando che le tracce interne suonano peggio di quelle esterne eccetera. Quello che in digitale suona magnificamente, su vinile suona benino. Come comprare una Bmw Serie 3 e poi sostituirne il motore con quello di una Alfasud. Non andate a spendere trenta euro per una nuova release che in download o Cd ne costa nove, e niente se la scaricate da YouTube.


Per essere trasferita su vinile, una registrazione digitale va adattata in postproduzione, deteriorandola (foto Seventies Berlin – The Vinyl Radio)
Esiste una eccezione a questo discorso, riguarda le registrazioni perlopiù jazz che ancora sono realizzate in analogico e trasferite da nastro su vinile. In tal caso sì, può valer la pena spendere qualcosa di più. Però bisogna conoscere le etichette, perlopiù piccolissime, per andare sul sicuro. Non dimenticate che tutta questa faccenda del vinile è soprattutto una enorme trovata commerciale, non è che gli inventori dei Cd fossero degli sciocchi senza orecchie, come molti audiofili vorrebbero far credere, anche se è vero che Il Cd è stato male utilizzato, come spiegherò in un prossimo articolo.


Mixer analogico di distribuzione e messa in onda (foto Seventies Berlin – The Vinyl Radio)
Da questo breve discorso si evince che le nuove produzioni conviene comprarle su Cd o download. Per quelle vecchie, in linea di massima è bene prenderle su vecchio vinile, non su nuovo e neppure su Cd, ma esistono eccezioni: per esempio l’edizione su Cd di The Kick Inside, di Kate Bush del 1979, suona meravigliosamente bene, come anche la serie jazz rimasterizzata per il CD da Rudy Van Gelder. Di questo e di altri argomenti vinilici parlerò in prossimi articoli. Intanto godetevi Wuthering Heights, tratto dal disco citato di Kate Bush: dopo quarant’anni mi dà ancora la pelle d’oca.

Siccome siamo in tempi di gente che si incavola facile: quanto scritto esprime la mia opinione, maturata in decenni di frequentazione di sistemi audio amatoriali e professionali. Non escludo che esistano produzioni viniliche contemporanee di altissimo livello e prezzo contenuto, nel qual caso sarò più che lieto di recensirle favorevolmente smentendomi parzialmente.
(Salvo diversa indicazione, le immagini sono state gentilmente fornite da Seventies Berlin – The Vinyl Radio).